lunedì 23 settembre 2013

Social network e memoria di lavoro: nemici o amici?

Per quel che concerne la memoria di lavoro, sottoinsieme della memoria a breve termine secondo il ben noto modello di Baddeley (1974), il nostro cervello funziona un po' come la RAM di un computer. Può cioè tenere a disposizione del legittimo proprietario una mole di informazioni limitate per quantità e per durata. Abbiamo giusto il tempo di usare quei dati per un'azione successiva, per una decisione, una strategia o una memorizzazione a lungo termine. Così riusciamo a usare nomi, numeri, immagini che abbiamo sentito, letto o visto qualche secondo prima. Quando i dati sono tanti, il cervello li filtra in base alla capacità residua del sistema (+- 7 chiunks), e alla direzione della nostra attenzione. Quando le interferenze sono numerose, i dati si perdono per strada (prova a leggere un numero di telefono e poi una sequenza di lettere e vedi se ti ricordi ancora il numero). Inoltre più l'ambiente fornisce stimoli, più il filtro dev'essere efficace ed efficiente, consumando molta energia. Infine se qualcuno studia artificiosamente un modo per distrarti di continuo (vedi scaffali dei supermercati, percorsi dei centri commerciali, e simili) il tuo cervello prova una sensazione di disorientamento e diventa più affaticabile e permeabile alle suggestioni.

Erik Fransen del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma è arrivato alle conclusioni che i social network fanno proprio questo effetto alla nostra memoria di lavoro: la sovraccaricano di dati in brevi lassi di tempo, di fatto sbaragliando le facoltà filtranti e impedendoci di gestire i contenuti che ci arrivano in modo strategico e ottimale. Di più: questo affatica la memoria e rende ardua la stabilizzazione dei ricordi. Rimedio suggerito: take your time. Cioè: prenditi delle pause e lascia sedimentare i dati sottraendoti al flusso informativo.
Traduzione: Fransen nota che i social network sono come un supermarket e hanno un indubbio effetto ipnotico (probabile neuroragione del loro successo oltre all'iperrelazionalità). Poi suggerisce di disinnescare l'automatismo ipnotico con brevi dosi di consapevolezza, una specie di versione on line della mindfulness.

Interessante. Però questo mi induce anche la riflessione contraria: se un social network è in grado di sovraccaricare la memoria di lavoro, questo significa che ne verifica e ne supera i limiti operativi. Perciò sarebbe possibile ripensare clinicamente questi ambienti on line anche in veste di efficaci trainer delle facoltà attentive ed esecutive.Usare in modo consapevole Facebook et similia potrebbe essere un metodo autoterapeutico per uscire dal loop, invece che un sistema passivo che ci immerge nella sabbia mobile dell'eterna contemporaneità degli eventi. Per esempio è possibile allenare la capacità di stare su un oggetto senza farsi distrarre; o di completare una sequenza operativa senza cedere alle interferenze; o di completare un task in un tempo ragionevole notando 1) se lo si è completato 2) quante volte e in quali casi la mente o lo sguardo si sono spostati. Un po' come in un centro commerciale, quando si decide di acquistare qualcosa di specifico e ci si reca lì apposta: prova a notare quanto passa prima che una distrazione ti rapisca, e osserva se all'uscita 1) hai comprato solo ciò che ti serviva, 2) ti sei ricordato di comprare quello che ti serviva.

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