sabato 23 maggio 2015

I VIDEOGAME SONO UN FATTORE DI RISCHIO PER L’ALZHEIMER?

Entro i 21 anni di età chi gioca con i videogame ha speso almeno 10mila ore davanti allo schermo: un training piuttosto intenso, se consideriamo l’attività videoludica sotto il punto di vista neuropsicologico. Gli effetti di questa attività così intensa e ripetuta cominciano a essere studiati soltanto in questi ultimi anni. Una ricerca recentemente pubblicata dai team  di Gregory West (Università di Montreal) e Véronique Bohbot  (McGill University) evidenzia che il cervello dei videogamers mostra una notevole efficienza in termini di attenzione visiva, ma anche che le strategie di orientamento e scelta dei medesimi soggetti sono dettate più dai centri dopaminergici di ricompensa, detti anche centri del piacere (nucleo caudato) e meno dal sistema di memoria spaziale “ufficiale” (ippocampo). Questo significa allo stesso tempo che chi videogioca molto e a lungo sollecita maggiormente le aree cerebrali connesse alle dipendenze e alla gratificazione immediata, mentre tende a usare meno l’ippocampo, risultanza associabile a un’ipotesi di aumento di rischio di disturbi neurologici come il morbo di Alzheimer. Sui centri del piacere si è già concentrata molta della ricerca attuale: è auspicio dei team coinvolti in questo studio che prossime pubblicazioni siano specificamente rivolte all’investigazione del ruolo dell’ippocampo.

martedì 2 settembre 2014

Sette su dieci controllano il cellulare del partner (e chi tradisce controlla di più).



Nei mesi di luglio e agosto 344 internauti italiani tra i 18 e i 60 anni di età, di ambo i sessi ed equamente distribuiti da nord a sud, hanno risposto a un questionario on line redatto dagli psicologi del centro milanese Psymind  e dedicato alla gelosia digitale. Il titolo del sondaggio era “Quanto controlli la vita digitale del tuo partner?”. Dall’analisi dei risultati emerge che il 68% del campione effettua qualche tipo di monitoraggio sui dati riservati della propria dolce metà attraverso cellulare o pc (e il 60% ritiene di essere a sua volta monitorato). Inoltre il 49%, nonostante la propria curiosità sul comportamento della controparte, ammette di aver tradito in prima persona (il 57% degli uomini contro il 47% delle donne). Incrociando i dati si arriva alla singolare evidenza che chi è geloso al punto da controllare i device elettronici del partner tradisce più di chi non lo fa (il 51% contro il 45%). 
A dire il vero circa il 90% del campione si dichiara in qualche modo geloso ma le donne si descrivono come più intensamente gelose degli uomini, tanto che il 4% di loro definisce patologica la propria gelosia. Per il 51% delle femmine un partner geloso è piacevole, mentre il 43% dei maschi considera fastidiosa una compagna con le stesse caratteristiche.
Il cuore del sondaggio riguarda la gelosia digitale.  Il 57% di chi ha risposto al questionario controlla le nuove amicizie del partner su Facebook (le donne lo fanno il doppio degli uomini) e il 60% nota i suoi orari di connessione su Whatsapp (anche qui la prevalenza femminile è schiacciante). Uno su due ha letto segretamente messaggi di Whatsapp o SMS, uno su tre la posta elettronica, il 42% i messaggi di facebook. Il 30% ha le password di accesso ai servizi on line del partner. In tutti i casi la componente femminile del campione è più ficcanaso di quella maschile. Con una sola eccezione: il 4% degli uomini dichiara di aver installato sul telefonino della compagna un software spia, contro il 2% delle donne. 
La fascia d’età che si fida di più è quella tra i 40 e i 49. Quella più diffidente è tra i 20 e i 29. A vergognarsi di più dei controlli effettuati sono gli over 50, ma nel complesso il 56% del campione non si fa alcun problema, anzi il 61% ha rivelato apertamente al partner di aver sbirciato dove non avrebbe dovuto, e il 15% ignora addirittura che la violazione della privacy e della corrispondenza altrui sia un reato. 
A che pro, tutto questo? Il 50% di chi effettua i controlli digitali afferma di aver scoperto un tradimento grazie alle proprie tecnomanovre. Il che significa che l’altro 50% si è fatto il sangue marcio per nulla.

venerdì 1 agosto 2014

Digitalove. Il nuovo male di coppia? La gelosia digitale. Rispondi al sondaggio!

«Sono disperata, era una storia bellissima ed è finita all’improvviso. È durata tre mesi, ci siamo visti soltanto tre volte ma ci scrivevamo anche quattrocento messaggi al giorno su Whatsapp. Quando è tornato a casa sua, dopo l’ultimo weekend insieme, mi ha lasciato inspiegabilmente via sms». Barbara ha 32 anni e racconta l’epilogo testuale della sua relazione altrettanto testuale in poche parole e molte lacrime, alla prima seduta dallo psicologo.


Andrea e Adele, under 30, litigano nella stessa sede: «Che cosa ci fai di notte su Whatsapp alle due e mezza quando non siamo insieme?». La voce di lei è tremante. «Controllo cosa ci fai tu on line alla stessa ora», replica lui secco. E poi c’è Clara, 34 anni, che ha tutte le password del suo lui e quando scopre che fa lo splendido con altre su Facebook non sa se rodere in silenzio o esplodere e dirglielo. E Matteo, 27 anni, che ha creato un falso profilo per provarci con la sua futura moglie e testarne la fedeltà. E ancora Gioia, che legge in seduta tutti i messaggi di Whatsapp degli ultimi sei mesi per raccontare la sua storia d’amore problematica come se la rivivesse in tempo reale. Impossibile tenere il conto delle persone che, nel ripercorrere la propria vita affettiva, nel 2014, si riallacciano ai supporti tecnologici, alla messaggistica istantanea o ai social network.

È l’amore digitale, un amore che si fa in quattro: lui, lei, l’avatar di lui e l’avatar di lei. Lui e lei sono le persone in carne e ossa. I rispettivi avatar sono i personaggi di fantasia che ciascuno dei due costruisce (e ama, o desidera) immaginando il partner sulla base di ciò che scrive, condivide, posta via smartphone o in rete. In sostanza identità reale e identità digitale si sovrappongono e si sdoppiano. E i confini non sono più così nitidi. Ci sono persone che amano i propri partner reali e stop; persone che idealizzano quelli digitali facendosi quindi deludere dai semplici interlocutori in carne e ossa; persone che non smettono mai di essere in contatto e altre che hanno sostituito i contatti fisici con quelli digitali.

Sono anni di trasformazione, questi, per noi umani, per i nostri sentimenti e per le nostre modalità di relazione. E l’interfaccia tecnologica è ormai un prolungamento della nostra relazionalità che ha autonome capacità trasformative. Con un messaggio parli, giochi, desideri, seduci, litighi, fai pace, inizi e finisci un rapporto. Siamo tutti maestri d’amore in poche decine di caratteri a punteggiatura ridotta e senza giri di parole. E sulle emozioni più estreme la tecnologia mostra il suo lato più utile e perverso nell’intrecciarsi con le caratteristiche umane. Prendi la gelosia. Con uno smartphone il mondo è con te. E anche con il tuo partner. Chi ha un’inclinazione al controllo e all’insicurezza esponenzializza il proprio tratto incrociando i dati: orari di collegamento, geotagging, nuove amicizie, messaggi, posta. Tutto è traccia. Tutto è possibile. Tutto è reale. Almeno nella mente del geloso digitale.

E tu? Controlli il tuo lui o la tua lei? Vieni controllata? Avete risposto al nostro sondaggio, effettuato in collaborazione in tantissimi (circa 350 persone).

Qui i risultati. Presto i commenti.

lunedì 14 aprile 2014

Quando il medico di base sbarca su Skype (in UK)

Medicina digitale, non solamente psicologia digitale. Oggi le agenzie di stampa riferiscono che i medici generici britannici visiteranno anche in collegamento via Skype quei pazienti che hanno difficoltà a muoversi. Si tratta di  una delle novità introdotte dal ministero della Salute d'oltremanica, nell'ambito di una sorta di rivoluzione  per gli ambulatori UK: d'ora in poi avranno orari di apertura estesi alla sera e al fine settimana per permettere anche a chi lavora fino a tardi, come ad esempio i dipendenti della City di Londra, di vedere il proprio dottore. Anche a distanza.
(Anche in Francia esiste da un paio d'anni qualcosa di simile, anche perchè gran parte dell'operato dei medici di base è comunque di matrice psicologico-ansiolitica. E in questo caso naturalmente un contatto in videochat è ottimale).

domenica 30 marzo 2014

La realtà virtuale e internet come luogo reale

Il controllo del fuoco risale al Paleolitico, mentre la ruota e la scrittura , di origine sumera, sono entrambe collocabili nel quarto millennio prima di Cristo. Quelle e tutte le altre grandi invenzioni dell’essere umano hanno richiesto molto tempo per essere operazionalizzate, divulgate, globalizzate. I tempi si sono ristretti sempre più, approssimandosi al XX secolo, grazie ai trasporti, alla comunicazione di massa, al metodo scientifico e alla condivisione delle informazioni. Fino all’era digitale. Questi ultimi anni comprimono la storia. L’effetto è strano: è possibile osservare dal vivo la rivoluzione digitale notando consapevolmente come idee, software e device stiano sagomando stili di vita, abitudini e modalità di relazione interpersonale.

Ora il percorso idea-progetto-realizzazione-nuovaideachesuperalaprecedente è talmente breve che ciascuno di noi tende a spazientirsi nell’attesa di un nuovo software o hardware annunciato appena dopo il lancio del modello precedente. Di fatto gli ultimi tre decenni hanno impresso (ed espresso) un’accelerazione esponenziale al consumo delle idee e della tecnologia fino all’attuale capillare diffusione della rete, che è in sé contemporanemente accesso, fenomeno, substrato, infrastruttura, denominatore comune. Internet-delle-cose, cioè la rete che tende a connettere tutti gli oggetti di uso comune, è visibilmente internet-delle-persone, ciòè filo rosso che unisce i viventi prima e meglio di una conoscenza reale, di un’ideologia comune, di un senso di appartenenza.

Internet è ontologia. Ci svegliamo connessi, ogni mattina. Cominciamo a nascere connessi, ogni volta che viene alla luce un nuovo nativo digitale. Internet è un connettoma esocorporeo che distanzia-avvicina chiunque tanto quanto le molecole contenute nell’aria che separa-unisce i nostri corpi. Se è così, la rete diventa l'universo, lo scenario, lo sfondo. E la connessione supera la competenza, il bisogno, l’utilità. Quando nasci sei vivo: semplicemente succede. Quando nasci sei on line: sta accadendo e basta.

Facebook compra Oculus Vr. espandendosi alla realtà virtuale dopo aver già inglobato immagini (Instagram) e messaggistica istantanea (Whatsapp). La vision pare complessa. Un social network è un luogo virtuale in cui si intrecciano relazioni reali, perciò la realtà virtuale potrebbe essere semplicemente un mondo (ri)costruito in cui spostare o agire quelle relazioni. Forse siamo già oltre. Se ricordiamo i Glass di Google e gli altri device che trasformeranno la nostra percezione del mondo in una percezione “aumentata”, è possibile fare un passo in più e arrivare a quando tutta la realtà sarà semplicemente un’inscindibile miscela di oggetti concreti e link. I palazzi, le persone, gli elettrodomestici, le strade: tutto sarà percorribile dal nostro corpo e allo stesso tempo navigabile dal nostro browser personale. Internet sarà il mondo – o viceversa – in cui ci muoveremo.

Cammineremo sfogliando pagine, attraverseremo incroci ma anche menu, stringeremo mani inserendole tra i contatti, parleremo di idee visualizzandole e condividendole. E l’Oggettività sarà sempre più multidimensionale e dinamica, personalizzata e interattiva. Che poi è quello che il nostro cervello fa già con la Soggettività. Ecco, sarà una nuova soggettività collettiva. Magari abitabile a diversi livelli di consapevolezza e di profondità. Aggiorneremo i nostri pattern vitali e relazionali come facciamo con i sistemi operativi. A quel punto coinvolgeremo la biologia.

giovedì 20 febbraio 2014

Whatsapp e la nuova psicologia (critica) della brevità

Facebook mangia Whatsapp. Whatsapp aveva già digerito gli sms convenzionali. Microsoft ha banchettato da tempo con Nokia. L’informatica ha dissolto la telefonia. Internet ha riposizionato il cellulare nella categoria “device mobile multifunzionale sempre connesso”.  Come noi. Organismi sempre in movimento e sempre a caccia di connessioni.
Le direzioni sono ben individuabili.
1)    In relazione al rapporto tra corpo e device. I terminali sono sempre più portatili, sempre più indossabili. Prima microtelefonini, poi microcomputer chiamati smartphones (cioè maxitelefonini ma universi condensati), poi gli smartwatch, quindi i tecnocchiali.
2)    In relazione al software. App per tutto, con un crollo dei prezzi e una moltiplicazione della concorrenza. Rispetto ai macrosistemi onnicomprensivi vince ora la microapplicazione capillare.
3)    In relazione allo stile di comunicazione. Brevità, sperimentazione, condivisione e ironia sono le parole d’ordine. Non lo squillo che ti disturba e ti incolla a un apparato costringendoti a parlare ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, ma una serie di app aperte contemporaneamente (Facebook, Twitter, Skype, Whatsapp, Imessage, Snapchat...) che ti consentono di mantenere connettività estrema con tutta la tua vita e le tue relazioni. Il mondo è sempre con te. Pure troppo.
4)    In relazione al tempo. Le app ti liberano dalla necessità della risposta immediata ma ti fanno pagare in cambio il prezzo di una sensazione estrema di caducità e di un eterocontrollo micidiale. Chi parla con te sa se ci sei, se stai scrivendo, quando ti sei connesso l’ultima volta. Il software entra nelle emozioni e modifica le relazioni tra le persone, paradossalmente peggiorando la comunicazione invece di facilitarla (“con chi chattavi a quell’ora?”, “perchè non mi rispondi visto che sei on line?”). Inoltre la Snapchatmania insegna che la comunicazione non solo è breve nello spazio (numero di caratteri) ma anche nel tempo: una foto è per pochi secondi. I messaggi temporizzati “che si autodistruggeranno da soli”, stile 007, stressano ulteriormente la necessità di trovare significati e significanti che lascino tracce nella memoria, mentre il loro supporto si proietta come una stella cadente nella percezione del destinatario.

In sintesi ci stiamo abituando a dire sempre meno e sempre più in fretta, moltiplicando al massimo gli eventi comunicativi come somma di parti. Un’email sembra giurassica. Un discorso? Roba da Cicerone. Ora le conversazioni sono haiku senza metrica nè poesia. Per spiegare la trama di un film non si usa un paragrafo con una proposizione principale e alcune subordinate ma una serie di riga-acapo-riga-acapo. Così anche per la trama della propria vita.
E anche quando pensiamo stiamo cominciando a comprimerci. L’autonarrazione si sintetizza. L’autoesplicazione si minimizza. Gli spazi di pensiero si rinsecchiscono. I vuoti lasciati dalla caduta di articoli, punteggiatura, doppie, sono subito riempiti da zone verbose. Occorre riappropriarsi di quei piccoli anfratti morfologici. Che poi sono le cesure della poesia, le pause della musica, le ombre delle arti visive. La consapevolezza ha il compito di inserire bolle di tempo tra le parole e tra le sequenze.

E l’aiuto on line? Deve seguire questi canoni secondo il consueto modello dell’ascolto-intervento. La psicologia digitale deve assumere una brevità sempre maggiore nell’apertura dell’intervento, usando anche la messaggistica istantanea, ricalcare lo stile del destinatario della comunicazione supportiva, carpirne l’attenzione e interromperne rapidamente lo schema, quindi inserire bolle di tempo, consapevolezza e respiro anche nel dialogo mediato dalla rete. Tuffarsi, agganciare, riaffiorare, respirare. Per questo la mia nuova linea di ricerca si muove nella direzione di whatsapp: una disruptive technology che ha abbattuto la messaggistica telefonica e cambiato il modo di comunicare non può non essere studiata per modificare in maniera adattiva anche i sistemi di intervento psicologico, se la psicologia vuole essere uno strumento d’aiuto capace di intercettare i bisogni sul nascere, o di fare una prevenzione efficace già a livello di linguaggio.

martedì 5 novembre 2013

Facebook predice il futuro della tua coppia.

Amore e rete: nel febbraio 2014 sarà pubblicata e divulgata ufficialmente una nuova ricerca firmata da Lars Backstrom, ingegnere che orbita nel gruppo di Zuckerberg, e Jon Kleinberg, suo mentore nonché analista della Cornell University. Il campione è cubitale: 1,3 milioni di utenti che hanno su Facebook almeno cinquanta amici e indicano il proprio stato sentimentale con una tra le varie forme di relazione consentite dalle opzioni del social network. I due scienziati hanno così analizzato l’interazione tra le cerchie di amici on line delle persone che formano una coppia. Risultato: un’enorme matrice di 8,6 miliardi di collegamenti contenenti 379 milioni di gangli, cioè sovrapposizioni nodali delle relazioni d’amicizia sul social network. Proprio questi nodi rappresentano il criterio innovativo cui si sono dedicati gli autori dello studio, chiamandolo dispersione: in altri termini, è il modo in cui gli amici di lui e quelli di lei si sovrappongono o si disperdono nel social.

Tra le evidenze della ricerca:
1)    analizzando le reti individuali, nel 60% dei casi si riesce a individuare il partner anche senza sapere chi è
2)    una relazione ad alta “dispersione”, cioè con ampia e vissuta sovrapposizione tra cerchie di amici, ma anche con spazi di autonomia, dura più a lungo (sulla base dei cambiamenti di stato con ritorno a “single”) di quelle che invece condivideono tra partner solo sporadici individui o al contrario manifestano una sovrapposizione prfetta ed esaustiva.

A Facebook questo serve per targetizzare meglio la pubblicità. A noi umani per capire che anche on line le relazioni troppo distanti e quelle soffocanti non hanno vita lunga.