giovedì 20 febbraio 2014

Whatsapp e la nuova psicologia (critica) della brevità

Facebook mangia Whatsapp. Whatsapp aveva già digerito gli sms convenzionali. Microsoft ha banchettato da tempo con Nokia. L’informatica ha dissolto la telefonia. Internet ha riposizionato il cellulare nella categoria “device mobile multifunzionale sempre connesso”.  Come noi. Organismi sempre in movimento e sempre a caccia di connessioni.
Le direzioni sono ben individuabili.
1)    In relazione al rapporto tra corpo e device. I terminali sono sempre più portatili, sempre più indossabili. Prima microtelefonini, poi microcomputer chiamati smartphones (cioè maxitelefonini ma universi condensati), poi gli smartwatch, quindi i tecnocchiali.
2)    In relazione al software. App per tutto, con un crollo dei prezzi e una moltiplicazione della concorrenza. Rispetto ai macrosistemi onnicomprensivi vince ora la microapplicazione capillare.
3)    In relazione allo stile di comunicazione. Brevità, sperimentazione, condivisione e ironia sono le parole d’ordine. Non lo squillo che ti disturba e ti incolla a un apparato costringendoti a parlare ovunque tu sia e qualunque cosa tu stia facendo, ma una serie di app aperte contemporaneamente (Facebook, Twitter, Skype, Whatsapp, Imessage, Snapchat...) che ti consentono di mantenere connettività estrema con tutta la tua vita e le tue relazioni. Il mondo è sempre con te. Pure troppo.
4)    In relazione al tempo. Le app ti liberano dalla necessità della risposta immediata ma ti fanno pagare in cambio il prezzo di una sensazione estrema di caducità e di un eterocontrollo micidiale. Chi parla con te sa se ci sei, se stai scrivendo, quando ti sei connesso l’ultima volta. Il software entra nelle emozioni e modifica le relazioni tra le persone, paradossalmente peggiorando la comunicazione invece di facilitarla (“con chi chattavi a quell’ora?”, “perchè non mi rispondi visto che sei on line?”). Inoltre la Snapchatmania insegna che la comunicazione non solo è breve nello spazio (numero di caratteri) ma anche nel tempo: una foto è per pochi secondi. I messaggi temporizzati “che si autodistruggeranno da soli”, stile 007, stressano ulteriormente la necessità di trovare significati e significanti che lascino tracce nella memoria, mentre il loro supporto si proietta come una stella cadente nella percezione del destinatario.

In sintesi ci stiamo abituando a dire sempre meno e sempre più in fretta, moltiplicando al massimo gli eventi comunicativi come somma di parti. Un’email sembra giurassica. Un discorso? Roba da Cicerone. Ora le conversazioni sono haiku senza metrica nè poesia. Per spiegare la trama di un film non si usa un paragrafo con una proposizione principale e alcune subordinate ma una serie di riga-acapo-riga-acapo. Così anche per la trama della propria vita.
E anche quando pensiamo stiamo cominciando a comprimerci. L’autonarrazione si sintetizza. L’autoesplicazione si minimizza. Gli spazi di pensiero si rinsecchiscono. I vuoti lasciati dalla caduta di articoli, punteggiatura, doppie, sono subito riempiti da zone verbose. Occorre riappropriarsi di quei piccoli anfratti morfologici. Che poi sono le cesure della poesia, le pause della musica, le ombre delle arti visive. La consapevolezza ha il compito di inserire bolle di tempo tra le parole e tra le sequenze.

E l’aiuto on line? Deve seguire questi canoni secondo il consueto modello dell’ascolto-intervento. La psicologia digitale deve assumere una brevità sempre maggiore nell’apertura dell’intervento, usando anche la messaggistica istantanea, ricalcare lo stile del destinatario della comunicazione supportiva, carpirne l’attenzione e interromperne rapidamente lo schema, quindi inserire bolle di tempo, consapevolezza e respiro anche nel dialogo mediato dalla rete. Tuffarsi, agganciare, riaffiorare, respirare. Per questo la mia nuova linea di ricerca si muove nella direzione di whatsapp: una disruptive technology che ha abbattuto la messaggistica telefonica e cambiato il modo di comunicare non può non essere studiata per modificare in maniera adattiva anche i sistemi di intervento psicologico, se la psicologia vuole essere uno strumento d’aiuto capace di intercettare i bisogni sul nascere, o di fare una prevenzione efficace già a livello di linguaggio.