martedì 5 novembre 2013

Facebook predice il futuro della tua coppia.

Amore e rete: nel febbraio 2014 sarà pubblicata e divulgata ufficialmente una nuova ricerca firmata da Lars Backstrom, ingegnere che orbita nel gruppo di Zuckerberg, e Jon Kleinberg, suo mentore nonché analista della Cornell University. Il campione è cubitale: 1,3 milioni di utenti che hanno su Facebook almeno cinquanta amici e indicano il proprio stato sentimentale con una tra le varie forme di relazione consentite dalle opzioni del social network. I due scienziati hanno così analizzato l’interazione tra le cerchie di amici on line delle persone che formano una coppia. Risultato: un’enorme matrice di 8,6 miliardi di collegamenti contenenti 379 milioni di gangli, cioè sovrapposizioni nodali delle relazioni d’amicizia sul social network. Proprio questi nodi rappresentano il criterio innovativo cui si sono dedicati gli autori dello studio, chiamandolo dispersione: in altri termini, è il modo in cui gli amici di lui e quelli di lei si sovrappongono o si disperdono nel social.

Tra le evidenze della ricerca:
1)    analizzando le reti individuali, nel 60% dei casi si riesce a individuare il partner anche senza sapere chi è
2)    una relazione ad alta “dispersione”, cioè con ampia e vissuta sovrapposizione tra cerchie di amici, ma anche con spazi di autonomia, dura più a lungo (sulla base dei cambiamenti di stato con ritorno a “single”) di quelle che invece condivideono tra partner solo sporadici individui o al contrario manifestano una sovrapposizione prfetta ed esaustiva.

A Facebook questo serve per targetizzare meglio la pubblicità. A noi umani per capire che anche on line le relazioni troppo distanti e quelle soffocanti non hanno vita lunga.

lunedì 23 settembre 2013

Social network e memoria di lavoro: nemici o amici?

Per quel che concerne la memoria di lavoro, sottoinsieme della memoria a breve termine secondo il ben noto modello di Baddeley (1974), il nostro cervello funziona un po' come la RAM di un computer. Può cioè tenere a disposizione del legittimo proprietario una mole di informazioni limitate per quantità e per durata. Abbiamo giusto il tempo di usare quei dati per un'azione successiva, per una decisione, una strategia o una memorizzazione a lungo termine. Così riusciamo a usare nomi, numeri, immagini che abbiamo sentito, letto o visto qualche secondo prima. Quando i dati sono tanti, il cervello li filtra in base alla capacità residua del sistema (+- 7 chiunks), e alla direzione della nostra attenzione. Quando le interferenze sono numerose, i dati si perdono per strada (prova a leggere un numero di telefono e poi una sequenza di lettere e vedi se ti ricordi ancora il numero). Inoltre più l'ambiente fornisce stimoli, più il filtro dev'essere efficace ed efficiente, consumando molta energia. Infine se qualcuno studia artificiosamente un modo per distrarti di continuo (vedi scaffali dei supermercati, percorsi dei centri commerciali, e simili) il tuo cervello prova una sensazione di disorientamento e diventa più affaticabile e permeabile alle suggestioni.

Erik Fransen del KTH Royal Institute of Technology di Stoccolma è arrivato alle conclusioni che i social network fanno proprio questo effetto alla nostra memoria di lavoro: la sovraccaricano di dati in brevi lassi di tempo, di fatto sbaragliando le facoltà filtranti e impedendoci di gestire i contenuti che ci arrivano in modo strategico e ottimale. Di più: questo affatica la memoria e rende ardua la stabilizzazione dei ricordi. Rimedio suggerito: take your time. Cioè: prenditi delle pause e lascia sedimentare i dati sottraendoti al flusso informativo.
Traduzione: Fransen nota che i social network sono come un supermarket e hanno un indubbio effetto ipnotico (probabile neuroragione del loro successo oltre all'iperrelazionalità). Poi suggerisce di disinnescare l'automatismo ipnotico con brevi dosi di consapevolezza, una specie di versione on line della mindfulness.

Interessante. Però questo mi induce anche la riflessione contraria: se un social network è in grado di sovraccaricare la memoria di lavoro, questo significa che ne verifica e ne supera i limiti operativi. Perciò sarebbe possibile ripensare clinicamente questi ambienti on line anche in veste di efficaci trainer delle facoltà attentive ed esecutive.Usare in modo consapevole Facebook et similia potrebbe essere un metodo autoterapeutico per uscire dal loop, invece che un sistema passivo che ci immerge nella sabbia mobile dell'eterna contemporaneità degli eventi. Per esempio è possibile allenare la capacità di stare su un oggetto senza farsi distrarre; o di completare una sequenza operativa senza cedere alle interferenze; o di completare un task in un tempo ragionevole notando 1) se lo si è completato 2) quante volte e in quali casi la mente o lo sguardo si sono spostati. Un po' come in un centro commerciale, quando si decide di acquistare qualcosa di specifico e ci si reca lì apposta: prova a notare quanto passa prima che una distrazione ti rapisca, e osserva se all'uscita 1) hai comprato solo ciò che ti serviva, 2) ti sei ricordato di comprare quello che ti serviva.

lunedì 2 settembre 2013

"Mi piace". Basta un clic e il cervello si accende (nella zona delle dipendenze).


Quando qualcuno clicca "Mi piace" sotto un tuo post o una tua foto, senti quel piccolo frizzicorino, una specie di principio di entusiasmo, una minipaccasullaspalla, un "bravo!" che si manifesta da qualche parte della mente? E' il sistema di ricompensa acceso dai centri dopaminergici del tuo cervello che si è messo in moto. E a seconda della forza di questa risposta cerebrale, è possibile predire quanto tempo e quanto impegno spenderai prossimamente sul social network di riferimento.

Dar Meshi della Freie Univeritat di Berlino ha confrontato le immagini funzionali del cervello di 31 utenti Facebook mentre  accoglievano i like in arrivo e ha trovato una correlazione significativa tra l'intensità dell'attivazione del rewarding system  (nucleus accumbens, zona tegmentale-ventrale, cervello antico) e il prosieguo dell'attività di socializzazione e condivisione sulla rete.

Questo induce almeno due riflessioni da verificare nel tempo.

1- Poichè il sistema di ricompensa e i suoi problemi di inibizione funzionale sono coinvolti fortemente nella generazione di dipendenze da sostanze, alcol, sesso, gioco, è lecito attendersi che in soggetti geneticamente o neurologicamente predisposti, ogni like sia una dose verso un'ipotetica dipendenza.

2- Poichè dati empirici e ricerche confermano che le dipendenze sono spesso fenomeni trasversali (gioco-sostanze, gioco-sesso, sesso-sostanze) e anche alternabili (cesso con le sostanze attacco col gioco o passo dall'una all'altra), è ipotesi lecita che una dipendenza da socialità on line possa sostituirsi al consumo di sostanze (per esempio giustificando un decremento dei consumi nella popolazione di nativi digitali, insieme alla crisi economica), o aggiungervisi (istituendo una sorta di socialità compulsiva in cui la chimica cerebrale è modificata sia dagli agenti esterni che da quelli interni in sinergia). Terreno di ricerca.

lunedì 26 agosto 2013

La psicoterapia on line funziona. Ma dai?

therapy1Se ne accorgono anche i media, riprendendo qua e là titoli ed estratti di autorevoli pubblicazioni scientifiche.
Per esempio cliccando qui puoi leggere l'articolo di Business Insider  che cita il Journal of affective disorder: in una ricerca pubblicata nel mese di luglio, Internet-based versus face-to-face cognitive-behavioral intervention for depression, gli autori dimostrano come su un campione di 62 pazienti depressi l'intervento via pc sia efficace tanto quanto quello effettuato di persona, e abbia addirittura esiti migliori a livello di follow-up. A tre mesi daalla fine del trattamento, infatti, il 57% dei pazienti on line non ha segni di depressione, contro il 42% dei pazienti convenzionali.

mercoledì 24 luglio 2013

Gruppi supportivi e terapeutici on line



In chat è possibile gestire sessioni di gruppo in cui l’esperto modera la discussione, chiarifica, disambigua le dichiarazioni, gestisce l’emotività della singola seduta. Si tratta però di uno strumento poco usato in rete perché rappresenta un'attività molto più impegnativa di quella svolta con un singolo interlocutore: è necessario mediare tra tante voci e tanti ritmi contemporaneamente, senza avere alcun riferimento visivo su chi sta per cominciare a parlare o su quali sono le modificazioni dell'umore nei momenti di pausa. Fattibile ma, appunto, impegnativo. A meno che il gruppo non sia verbalmente passivo, ma in questo caso si tratta di una forma di seminario o di workshop condotto da una cattedra virtuale, non di un vero e proprio gruppo.
Un gruppo ristretto in videoconferenza è più efficace e semplice da gestire, ma richiede strumenti più evoluti (e abbonamenti a servizi di video chat o aule virtuali collettive).

Molto più frequente e funzionale, in rete, è il gruppo di supporto, o di peer. Già per sua natura, il web 2.0 ha aumentato le interazioni tra pari su Internet, specialmente per le molte comunità virtuali di pazienti che sono emerse nell’ultima decade.  Le comunità on line sono molto efficaci come risorse supportive per soggetti con diversi tipi di problematica, dal cancro (Setoyama, 2011; Hoybye, 2010; Klemm, 2012) al lutto (Aho, 2012), dalla depressione (Melling, 2011) alla schizofrenia (Kaplan, 2011), dalla micropolicisti ovarica (Percy, 2010) al dimagrimento (Hwang, 2012). Sono utili anche a caregiver o congiunti di soggetti con le medesime problematiche.

I gruppi di supporto tra pari su Internet hanno fattori curativi simili a quelli identificati da Yalom (2005) per i gruppi dal vivo: senso di appartenenza e di accettazione, voglia o bisogno di raccontare informazioni personali, espressione onesta delle proprie emozioni a se stesso e gli altri membri del gruppo, interesse e accettazione degli altri, supporto del gruppo, importanza attribuita alla singola persona, senso di stabilità, speranza, miglioramento delle abilità di socializzazione, comportamento imitativo, apprendimento interpersonale, coesione del gruppo, catarsi.

L'utilizzo di questi gruppi è ideale come continuazione o aggiunta rispetto alla terapia tradizionale: i clienti possono sperimentarsi in un contesto accogliente fatto di persone che hanno caratteristiche simili, il terapeuta può controllare l'andamento del suo intervento verificando la capacità di interazione e condivisione del suo assistito, il gruppo in sé trae beneficio dall'introduzione di nuovi membri amplificando la propria capacità di avere una voce comune.

Nei gruppi in rete l'anonimato è pervasivo e questo effetto altera clamorosamente la percezione dell'ambiente interpersonale, che viene subito percepito dal singolo come sicuro e in grado di accogliere i più profondi e segreti contenuti personali senza timore di essere giudicato. La distanza fisica e l'impossibilità di ricondurre ciò che si dice on line alla propria vita off line, sono ulteriori elementi che incoraggiano le persone a rivelarsi a fondo quando partecipano a questo tipo di gruppo. Contemporaneamente, seduto davanti al proprio computer in un ambiente privato e protetto, ciascuno diventa più capace di focalizzare i propri contenuti mentali senza assoggettarsi alla pressione dell'esposizione fisica agli altri.

giovedì 18 luglio 2013

martedì 16 luglio 2013

ADHD: la FDA approva il primo neurotest diagnostico

Negli USA la diagnosi infantile di Sindrome da Deficit d’Attenzione e Iperattività (ADHD) va di gran moda, così come  il conseguente trattamento amfetaminico, specie con metilfenidato. Il giro d’affari sviluppatosi in quarant’anni attorno a questa sindrome complessa e al suo controverso trattamento farmacologico è impressionante. Si parla di un’incidenza mondiale della sindrome pari al 3-5% dei bambini, ma mentre negli USA quasi 1 su 10 viene diagnosticato almeno parzialmente o momentaneamente ADHD, in Francia si arriva a meno di 1 caso su 200. Medici, psicologi, famiglie formano veri e propri partiti pro e contro l’adozione di farmaci e la diagnosi facile. Nel bel mezzo di questa discussione irrisolta ed epocale, la FDA ha approvato oggi per la prima volta un test neurologico che si basa sul rapporto tra due frequenze cerebrali ben note a chi si occupa di encefalografia quantitativa e di neurofeedback: theta (4-8 Hz) e beta (16-19 hz).
Semplificando al massimo, in un soggetto funzionale le onde theta (a bassa frequenza, molto presenti in stati ipnotici e meditativi, nonché in alcune fasi di passaggio tra dormiveglia e sonno profondo) dovrebbero essere misurabili in maggiore quantità nella zona parieto-occipitale del cervello, digradando verso la zona frontale, distribuendosi in maniera equilibrata tra i due emisferi; le onde beta, proprie dello stato di veglia (e di alcuni picchi del sonno REM) sono al contrario più presenti nella zona frontale, con una lieve asimmetria a vantaggio dell’emisfero sinistro. Il rapporto numerico tra ampiezza delle onde theta e beta in alcune zone frontali e frontoparietali specifiche (su tutte F3, C3, C4, usando la classificazione encefalografica 10-20) quantifica l’attivazione delle medesime aree e costituirebbe un marker per i disturbi d’attenzione (T-B > 3-3.5 su F3, C3, CZ) e per l’iperattività (T-B >3-3.5 soprattutto su C4 e CZ).
Un intervento di rieducazione di questo rapporto tra onde tramite autoapprendimento (neurofeedback) sembra essere efficace nel migliorare tanto la componente disattentiva quanto l’iperattività. Anche qui i dati sono controversi: nel 2005 negli USA il Professional Advisory Board of CHADD concludeva che il neurofeedback ha efficacia 2 su una scala 1-5 (possibly efficacious), poi nel 2009 Arn stabiliva in base a nuovi studi un livello 5 (efficacious and specific) e nel 2011 una review di Lofthouse ha riabbassato questo orizzonte al livello 3 (probably efficacious), mentre nel 2013 si ridiscute un innalzamento al 5. Difficile capire se si tratta di disquisizioni contenutistiche, metodologiche o lobbistiche.
In ogni caso è arrivato il via libera al dispositivo 'Neuropsychiatric Eeg-Based Assessment Aid (Neba) System' che, basandosi proprio sulla registrazione non intrusiva delle onde cerebrali e sulla successiva analisi del rapporto theta-beta, in un quarto d’ora di test non invasivoriesce a fornire informazioni cliniche che vanno sommate alla valutazione psicologica/psichiatrica per una corretta diagnosi. Tra parentesi, questo dispositivo può essere tranquillamente emulato dall’utilizzo di qualunque amplificatore di onde cerebrali professionale collegato a un pc, magari con l’ausilio di software ad hoc o di schermate disegnate per semplificare la valutazione del rapporto t/b, come queste.
Quale sarà l’effetto di questa approvazione? Una correzione al ribasso delle diagnosi statunitensi? Un ampliamento mondiale delle diagnosi? Un semplice strumento in più a disposizione dei clinici?

mercoledì 10 luglio 2013

Text talk: il mondo delle parole


Parlare attraverso il linguaggio scritto, l'atto che viene definito text talk, non è semplicemente una questione generazionale e di abitudine all'utilizzo delle tecnologie digitali, ma è anche un'abilità che si può acquisire e migliorare. Di più: è un'arte. Esattamente come una buona capacità espressiva verbale/vocale è allo stesso tempo un'abilità e un'arte.
Il primo punto fermo è che l'abilità di comunicare in modo efficace attraverso la tastiera è strettamente collegata alle abilità di scrittura del soggetto. Chi odia scrivere, digita molto lentamente, ha un linguaggio particolarmente povero e sgrammaticato, difficilmente potrà essere coinvolto volentieri in un processo di aiuto testuale. Al contrario ci sono persone che preferiscono scrivere per esprimersi e provano una forma di piacere nello strutturare il proprio pensiero in frasi, selezionando le modalità che sentono più vicine a sè nel momento in cui lo fanno.
Nel dialogo scritto, i messaggi più efficaci sono quelli che si situano a metà tra spontaneità e organizzazione pianificata dei contenuti. Un messaggio breve, con errori banali di battitura e un'apparenza visiva un po' caotica può essere espressione sincera di amicizia e affetto, come se l'interlocutore accendesse la webcam in una stanza della sua casa in disordine. Allo stesso tempo un messaggio di questo tipo può anche essere espressione genuina dello stato della mente della persona in quel momento. Come dire: sono di fretta ma volevo contattarti ugualmente.
In genere i testi diventano più disomogenei, dettagliati ed espressivi mentre la relazione si approfondisce e le persone si sentono sufficientemente sicure per andare ad esplorare se stesse e il rapporto con l'interlocutore senza timore di scoprirsi troppo o di mettere in gioco la relazione. L'alleanza regredisce invece se il soggetto si sente minacciato, ferito o arrabbiato: in questo caso messaggi caotici e infantili possono indicare scompenso, acting out testuali o accessi psicotici.
Ciascun messaggio on line assomiglia a un piccolo pacchetto compresso di autopresentazione lanciato nel cyberspazio, come se fosse un prodotto a sé, un'opera finita, un dono da fare al proprio interlocutore. E come tale va trattato dallo specialista, che attraverso un'e-mail (forse più facilmente che in chat) può risalire alle abilità specifiche del cliente, riconoscendo importanti sfumature di stile cognitivo e anche di personalità tra una riga e l'altra. La qualità della relazione d'aiuto testuale si basa in buona misura sulla presenza e sull'impiego di queste abilità analitiche, accostate alla capacità d'ascolto.

sabato 6 luglio 2013

Chi controlla gli "ex" su Facebook non si evolve

Dimenticare è uno strumento evolutivo perché permette di ancorarsi al presente senza continuare ad abitare il passato. E la rete non dimentica, perciò almeno in questo non facilita l’evoluzione personale. Lo sosteneva diffusamente, tra gli altri, Viktor Mayer Shönberger nel suo libro “Delete – Il diritto all’oblio nell’era digitale”, uscito in Italia nel 2010. E’ una questione psicologica (stare nel qui-e-ora), ma se vogliamo anche sociologica, giuridica, giornalistica. Perché in rete ciò che è stato resta sempre ciò che è, in una specie di bidimensionalizzazione dell’esistenza che va a riscrivere di continuo una biografia di ciascuno di noi, perennemente aggiornata eppure ossessivamente ricorsiva. I social network, per esempio, costituiscono un diario compresso di ciò che pensiamo e facciamo: consentono di ripassare in pochi minuti interi anni di vita, comprimendoci in veri e propri zip informativi che non restituiscono la dimensione temporale e la complessità del nostro cammino.
Una recente ricerca (Marshall, 2012) ha spostato questa considerazione sul mondo degli affetti mediati da Facebook. Su un miliardo di utenti mondiali del social di Zuckerberg, si stima che un terzo degli iscritti utilizzi questo strumento per controllare (nota bene: non mantenersi in contatto ma controllare) le gesta degli “ex”. In una specie di gioco masochistico-ironico, le persone tenderebbero infatti a tenere legami virtuali, anche di semplice monitoraggio, con soggetti con i quali nella vita fisica hanno invece interrotto ogni rapporto. Gli amori finiscono, le persone si allontanano, ma non su Facebook, dove secondo questo studio la tentazione di andare a ficcare il naso nella vita – altrimenti non più accessibile – dei non-più-partner è per molti irresistibile. Irresistibile ma non gratuita. Infatti il prezzo si paga in termini evolutivi. La vita virtuale diventa specchio interattivo della vita reale e il campione di 464 persone prese in considerazione mostra chiaramente che i soggetti che non si staccano dagli ex on line manifestano minore tendenza alla crescita personale, minore capacità di superamento del lutto amoroso, minore propensione all’automedicazione psicologica. Insomma occorre imparare che le storie vanno concluse anche in rete, indipendentemente dal fatto che l’altro sia del tutto ignaro di essere osservato a distanza.

giovedì 4 luglio 2013

Fiducia, la password dell'era internet.

Fiducia è una parola fondamentale per questa era digitale. Secondo alcuni ricercatori (Wogalter, Schofield, Ma, Pettit, Mc Geer, Wishwanath, Bierhoff, 2004-2010) su internet la fiducia è:
• connessa alle caratteristiche individuali: maggiori sono le abilità sociali del soggetto, maggiore è la fiducia indotta o concessa;
• proporzionale alla navigazione: più si è on line, più ci si fida;
• diversa dalla privacy: dipende dal contatto reciproco, non dalla riservatezza;
• indotta talvolta magicamente: se ipotizzo che un interlocutore sia affidabile, proietto su di lui queste aspettative e finisco col fidarmi davvero di lui come se avessi una maggiore conoscenza della persona e della situazione;
• identica tra chi ha abilità di discriminazione e chi è ingenuo: in rete chi ha i mezzi per capire di chi fidarsi tende a fidarsi allo stesso modo di chi non ha i mezzi;
• correlata alla fiducia sociale di provenienza: mediamente un acquirente canadese non controlla la reputazione di un venditore su eBay prima di chiudere un accordo con lui, mentre in Italia questo non sarebbe pensabile;
• concessa in base alla fiducia nel medium: poiché internet è un luogo di libertà che porta con sé valori eminentemente positivi, non è possibile che vi accada qualcosa di spiacevole e quindi mi fido semplicemente per il fatto che sono in rete e che anche il mio interlocutore è in rete come me.
Senza fiducia internet si sgonfierebbe: non faremmo acquisti on line, non accederemmo al nostro conto corrente, non scriveremmo niente di noi su un social network, non condivideremmo fotografie nè video.

La rivoluzione del cosiddetto web 2.0, il regno della partecipazione e della condivisione, è in realtà la normalizzazione di tutta una serie di comportamenti che nella vita fisica di tutti i giorni non avremmo mai adottato per semplici regole di prudenza o convenienza.
Perchè è successo? Perchè al nostro cervello piace biochimicamente stare in rete: ma questo è un altro post.

Beati voi umani... (20 sec di promo)


Perchè psicologia digitale?

Due chiacchiere tra autore ed editore. Pietro Spagnulo, psichiatra, psicoterapeuta e mente di Ecomind mi intervista sui contenuti e sulle origini dell'ebook.

martedì 2 luglio 2013

Rete: lo specchio imperfetto

Dire che esiste una connessione diretta tra identità off line e on line non significa sostenere che mentre  ci troviamo in rete siamo uguali alla nostra versione “disconnessa”. Regole, possibilità e strumenti disponibili su Internet sono infatti notoriamente differenti da quelli consentiti dalla vita di tutti i giorni tra casa, ufficio, scuola e altri ambienti fisici: anonimato, assenza del corpo, comunicazione testuale, disinibizione e autoapertura sono alcune tra le principali caratteristiche che differenziano la vita on line dall'altra.
Avendo trasferito o duplicato esigenze, desideri e comportamenti dal mondo fisico a quello virtuale, gli utenti della rete hanno adattato tutti i propri contenuti al contesto digitale e nel farlo - per la prima volta nella storia, considerando che Internet è a disposizione di tutti dalla metà degli anni 90 del secolo scorso - a volte elaborano forme di comportamento apparentemente esagerate ed estreme rispetto alle omologhe forme off line.  Questo pare avvenire soprattutto per quel che concerne i nativi digitali. Per esempio, l’analisi di una stanza di chat (Smahel, 2007) ha mostrato che nelle conversazioni esistono: un rimando ad argomenti sessuali per ogni minuto, due dichiarazioni di identità nella stessa unità di tempo e due ricerche di partner ogni 60 secondi.
On line le differenze di genere tra adolescenti sono in parte rispettate e in parte sovvertite. In chat, per esempio, le femmine cercano partner più spesso dei maschi. Sui blog ragazzi e ragazze sono pari in quanto a utilizzo di linguaggio aggressivo e passivo (Huffaker, 2005), e diventa falso il luogo comune secondo cui il primo si addice maggiormente ai maschi e il secondo le femmine.
E' bene ribadirlo, dunque: tra la versione off line e on line di uno stessa persona, in particolare di uno stesso adolescente, esiste una forte connessione ma non una copia comportamentale.

lunedì 1 luglio 2013

Facebook e autostima: su o giù?


In teoria Facebook è una gran cosa per le persone con una bassa autostima: i social network permettono di condividere contenuti ed esperienze, condividere è importante per rafforzare le amicizie, e rendere i legami più solidi aumenta il senso di supporto e la sicurezza in se stessi. In teoria, appunto. In pratica però le persone con minore autostima sembrano comportarsi in maniera controproducente quando sono on line, bombardando i loro amici con aneddoti negativi che riguardano la propria esistenza, rendendosi meno gradevoli ai loro occhi. 
Due ricercatori dell’Università di Waterloo (Wood, 2012) hanno osservato il comportamento on line di un campione di studenti, sottoponendoli anche a un questionario sul tema. I ragazzi con autostima minore consideravano il social network come una grande opportunità per entrare in contatto con altri in maniera sicura, evitando cioè situazioni di sgradevole imbarazzo sociale. Gli aggiornamenti di status però sono visibili a tutti e se si analizza il sentiment di questi brevi autoscatti testuali si evince che quelli dei ragazzi che hanno autostima inferiore sono più negativi degli altri. Altri utenti Facebook della stessa età venivano poi impiegati per esprimere un giudizio di gradimento sulle persone in relazione proprio ai loro status. In sintesi: chi ha meno autostima scrive status più negativi e chi li legge considera più sgradevoli di altri gli autori. Inoltre le reazioni maggiori si hanno in base ai post che esprimono le emozioni più rare per ciascun soggetto: chi ha scarsa autostima ottiene più feedback quando scrive post positivi; chi ha alta autostima ne ottiene di più per i suoi commenti negativi. Questo significa che le persone con scarsa autostima possono trarre vantaggi immediati dalla propria self disclosure, in termini di sollievo, ma non vantaggi strategici, perché aprendosi raccontano più emozioni negative e diventano più sgraditi. Anche se non lo sanno, visto che i post di reazione sono pochi.
Diversamente, nel 2013 C.Toma dell'Università del Wisconsin ha notato che esporsi per cinque minuti allla vista del proprio profilo Facebook è come un'iniezione di autostima anche per chi ne ha meno. Anzi, l'effetto di questo "doping" è tale che, subito dopo l'esposizione alla vista del proprio profilo, i soggetti del campione analizzato non hanno bisogno di trovare altri meccanismi di innalzamento dell'autostima e quindi sono all'atto pratico meno motivati nella realizzazione di piccoli compiti reali dai quali potrebbero trarre vantaggio in termini di immagine di sè. Come dire: con facebok stai meglio e fai peggio. Naturalmente si tratta sempre di test effettuati in laboratorio.

venerdì 28 giugno 2013

Il pensiero che diventa giocattolo.

Un software mostra forme e colori differenti. Un bambino guarda lo schermo. Un caschetto con quattordici sensori registra le sue onde cerebrali e rileva le variazioni emotive. Il programma assembla in un oggetto virtuale le preferenze  manifestate dal cervello del bambino. Una stampante 3D rende reale e tangibile quell’oggetto virtuale. Ecco come un pensiero può trasformarsi in un giocattolo su misura. Ci sta lavorando – e ha già i primi risultati concreti – la società Thinker Thing. Il progetto Monster Dreamer prevede appunto che un bimbo possa ottenere il suo mostriciattolo personale semplicemente stampando tridimensionalmente le proprie reazioni neuroelettriche ai design proposti dal software. Thought Puppet è invece un giocattolo mentale ideato dalla medesima azienda e basato sulla stessa tecnologia di lettura encefalografica: il pupazzo cambia espressione, sorride, ammicca, si muove in base alle intenzioni rilevate dai sensori sul cranio del bambino.
Le neurotecnologie interattive sono ancora giovani ma già ora, con poche centinaia di euro, è possibile avere device che sono in grado di rilevare le emozioni fondamentali, le espressioni facciali, e le intenzioni di movimento semplicemente dalle onde cerebrali e in tempo reale. L’impressione è che stia per cambiare completamente il modo con cui interagiremo con elettrodomestici, apparati elettronici, forse con l’ambiente stesso. Dovremo presto affrontare il paradosso secondo cui, pur sapendo che i pensieri non sono fatti concreti ma solamente contenuti mentali, saranno in grado di diventare fatti concreti alla velocità del pensiero.

Ipnosi on line? Sorpassata. Siamo già all'ipnotista virtuale.

La possibilità di effettuare un'induzione ipnotica via internet, seguita o no da una forma di ipnoterapia, è cosa già ipersperimentata. On line decine di siti anglofoni offrono animazioni ripetitive, miscele di luci e suoni, sessioni live e registrate di ipnosi per il semplice rilassamento o per interventi mirati e specifici. Non esistono al momento ricerche sull'efficacia di questi trattamenti a distanza (se si eccettua uno studio che ha rilevato la plausibilità degli interventi autoipnotici audioguidati per il dolore cronico e per i dolori da cancro), mentre per quel che riguarda le semplici induzioni, basta una webcam per capire in tempo reale cosa sta accadendo al proprio interlocutore. Il che permette all'ipnotista, chiunque egli sia, di sapere se le sue parole stanno materialme te avendo un effetto sulla soglia critica e sullo stato di coscienza del "cliente". Il meccansimo è così diffuso da aver generato negli ultimi anni anche derive ludico-sessuali, come la generazione di fantasie erotiche, specie di dominazione, attraverso la teleipnosi: il fenomeno è definito domnosis.
Adesso si va oltre. A somministrare l'induzione può essere anche un ipnotista virtuale, con tanto di ambientazione 3d e voce sintetica. Può essere un buon modo per verificare la funzionalità di uno script induttivo a livello testuale, considerando che la capacità suggestiva del sintetizzatore vocale è pari a zero.

Sensori portatili per allenare il corpo e la mente

Mobilità, indossabilità, interattività, neuromania, rete: sulla base di questi quattro ingredienti, dall'inizio del decennio in corso si registra una forte intensificazione della commercializzazione di prodotti hardware e software (tanto clinici quanto semplicemente ludici) che basano il proprio funzionamento sull’interazione tra lettura delle onde cerebrali o di altri parametri fisiologici e funzionalità/attività eseguite sullo schermo. Si va dai giochi in scatola per bambini (es. Mindflex Duel, che pilota una pallina mossa da un cuscinetto d’aria la cui intensità è gestita da due sensori fronto-temporali) a prodotti pro-sumer come Emotiv, un caschettoEEG che si connette via bluetooth al pc per comandare con la mente videogames di varia natura ma anche utility di biofeedback, mappe di attività cerebrale e programmi dedicati al potenziamento di specifiche frequenze cerebrali, similmente a quanto fa un altro prodotto, denominato Mindwave e realizzato tanto in versione USB per collegamento a computer, quanto in versione wireless per l’abbinamento a smartphone e tablet. Ultimo nato, in questo settore, è infatti il biofeedback portatile.
eSense
La società tedesca Mindfield Biosystems ha lanciato nel 2012 eSense, un software per telefono cellulare che utilizza un sensore termico e uno di conduttanza da applicare alle dita di una mano per impostare e gestire un programma antistress personalizzato senza limiti di spazio. Heartmath, azienda leader nello studio del biofeedback centrato sulla variabilità cardiaca
(HRV), ha messo in commercio nel 2013 Inner Balance, un’app per smartphone che trasferisce nel settore mobile il know-how del suo classico software EmWave. Neurocog, azienda australiana promotrice del neurovideogame Focus-Pocus, utile per i disturbi dell’attenzione infantili e guidato dal sensore frontale
Mindwave già citato, ha rilasciato anche Brainpower, una versione smartphone del gioco, che permette al bambino di allenare le proprie onde cerebrali indossando il sensore connesso in bluetooth con il cellulare dei genitori e comandare col “pensiero” le schermate del gioco: più il comportamento cerebrale del bimbo è in linea con le richieste del videogame, più il punteggio è elevato.

giovedì 27 giugno 2013

Psicologia digitale: Italia in ritardo di quindici anni.

Il binomio psicologia-internet esiste in modo embrionale sin dagli albori della rete stessa. Internet nasce col nome di Arpanet negli USA, nel 1969, con intenti militari. Acquisisce il nome internet solamente quattordici anni più tardi e diviene di pubblico dominio e utilizzo – in una veste simile a quella che conosciamo attualmente – a metà degli anni novanta. Già nel 1972, però, nel corso della Conference on Computer Communication organizzata a Stanford, si vuole dare un saggio delle potenzialità in fieri di una maxirete di computer sempre attivi, simulando una sessione di psicoterapia tra interlocutori distanti. Il primo approccio alla cosiddetta e-therapy, come viene definita per generalizzazione ogni forma di intervento psicologico
a scopo terapeutico on line, arriva con l’invenzione delle primissime forme gruppali di supporto all’auto-aiuto via rete.


Dai gruppi di auto-aiuto alla vera e propria consulenza psicologica on line, il salto è probabilmente spontaneo ma non certificabile. Non esiste in pratica un momento specifico in cui un professionista, in quegli anni, comincia a pubblicizzare il proprio intervento via computer. Di certo il primo esperimento a livello accademico risale al 1986, si chiama Ask Uncle Ezra e si deve a Jerry Feist e Steve Worona, che lo pensano come servizio di supporto gratuito per gli studenti della Cornell University, a Ithaca, NY.
Qualche anno dopo, internet esplode in tutta la sua rivoluzionaria onnipresenza totisimultanea e gli specialisti della mente più inclini alla sperimentazione e più informaticamente alfabetizzati iniziano a muoversi a tentoni all’interno della nuova realtà. Gli anni Novanta del secolo scorso segnano il boom delle tecnologie di comunicazione a basso costo e i terapeuti in rete diventano centinaia. Nel decennio successivo si moltiplicano i siti dedicati all'aiuto on line tra USA, UK, Canada, Giappone, Israele, Australia. In Italia siamo semplicemente in ritardo di una quindicina d'anni, tanto che ancora oggi tutto questo sembra rivoluzionario, gli ambienti accademici non ne parlano, l'establishment delle terapie convenzionali si mostra impermeabile, quando non oppositivo. Il progetto Zheng è un nano (italiano) sulle spalle di giganti (stranieri), ma almeno è un nano vivo e in crescita.

mercoledì 26 giugno 2013

La prima robot rockband: quando non è l'uomo a diventare cyber, ma il contrario

Sottilmente ot, o forse no. Divertente e inquietante.
Gli Z-Machines sono una rockband forse non entusiasmante ma di certo anomala: i musicisti sono robot. L'anima della band - che ha debuttato a Tokyo - è l'artista Yoichiro Kawaguchi: "I robot musicisti fanno cose che gli uomini non possono fare: hanno braccia di ogni lunghezza, si muovono in modo diverso e suonano più di uno strumento per volta".

il video degli Z-Machines a Tokyo

Il simile sceglie il simile o diventa simile?

I nativi digitali, diventano amici più facilmente di persone simili a loro o viceversa tendono ad assomigliare alle persone di cui sono già amici? Analizzando i dati di un gruppo di studenti su Facebook per quattro anni, Lewis (2012) rivela che i ragazzi che condividono i gusti in fatto di musica ma non di libri sono significativamente più propensi a diventare amici tra loro. Allo stesso tempo c'è evidenza del contagio di gusti tra chi è già amico su Facebook ad eccezione di coloro i quali gradiscono musica classica e jazz.

Più facebook più cosa?

Facebook:
- > utilizzo > capitalizzazione delle relazioni in termini di benessere (7 università Sudafrica, 2013)
- > utilizzo > conflitti amorosi (Un. Missouri, 2013)
- > ansia, marijuana e alcol > utilizzo (Un. Texas, 2013)

Tale comunità tale linguaggio

Per modificare abitudini di consumo, tabagismo e comportamenti sessuali, è utile usare linguaggio e modi della comunità di riferimento. Se la comunità è un social network, la comunicazione deve partire dal social network. (Valente, Keck School of Medicine, 2013)