mercoledì 24 luglio 2013

Gruppi supportivi e terapeutici on line



In chat è possibile gestire sessioni di gruppo in cui l’esperto modera la discussione, chiarifica, disambigua le dichiarazioni, gestisce l’emotività della singola seduta. Si tratta però di uno strumento poco usato in rete perché rappresenta un'attività molto più impegnativa di quella svolta con un singolo interlocutore: è necessario mediare tra tante voci e tanti ritmi contemporaneamente, senza avere alcun riferimento visivo su chi sta per cominciare a parlare o su quali sono le modificazioni dell'umore nei momenti di pausa. Fattibile ma, appunto, impegnativo. A meno che il gruppo non sia verbalmente passivo, ma in questo caso si tratta di una forma di seminario o di workshop condotto da una cattedra virtuale, non di un vero e proprio gruppo.
Un gruppo ristretto in videoconferenza è più efficace e semplice da gestire, ma richiede strumenti più evoluti (e abbonamenti a servizi di video chat o aule virtuali collettive).

Molto più frequente e funzionale, in rete, è il gruppo di supporto, o di peer. Già per sua natura, il web 2.0 ha aumentato le interazioni tra pari su Internet, specialmente per le molte comunità virtuali di pazienti che sono emerse nell’ultima decade.  Le comunità on line sono molto efficaci come risorse supportive per soggetti con diversi tipi di problematica, dal cancro (Setoyama, 2011; Hoybye, 2010; Klemm, 2012) al lutto (Aho, 2012), dalla depressione (Melling, 2011) alla schizofrenia (Kaplan, 2011), dalla micropolicisti ovarica (Percy, 2010) al dimagrimento (Hwang, 2012). Sono utili anche a caregiver o congiunti di soggetti con le medesime problematiche.

I gruppi di supporto tra pari su Internet hanno fattori curativi simili a quelli identificati da Yalom (2005) per i gruppi dal vivo: senso di appartenenza e di accettazione, voglia o bisogno di raccontare informazioni personali, espressione onesta delle proprie emozioni a se stesso e gli altri membri del gruppo, interesse e accettazione degli altri, supporto del gruppo, importanza attribuita alla singola persona, senso di stabilità, speranza, miglioramento delle abilità di socializzazione, comportamento imitativo, apprendimento interpersonale, coesione del gruppo, catarsi.

L'utilizzo di questi gruppi è ideale come continuazione o aggiunta rispetto alla terapia tradizionale: i clienti possono sperimentarsi in un contesto accogliente fatto di persone che hanno caratteristiche simili, il terapeuta può controllare l'andamento del suo intervento verificando la capacità di interazione e condivisione del suo assistito, il gruppo in sé trae beneficio dall'introduzione di nuovi membri amplificando la propria capacità di avere una voce comune.

Nei gruppi in rete l'anonimato è pervasivo e questo effetto altera clamorosamente la percezione dell'ambiente interpersonale, che viene subito percepito dal singolo come sicuro e in grado di accogliere i più profondi e segreti contenuti personali senza timore di essere giudicato. La distanza fisica e l'impossibilità di ricondurre ciò che si dice on line alla propria vita off line, sono ulteriori elementi che incoraggiano le persone a rivelarsi a fondo quando partecipano a questo tipo di gruppo. Contemporaneamente, seduto davanti al proprio computer in un ambiente privato e protetto, ciascuno diventa più capace di focalizzare i propri contenuti mentali senza assoggettarsi alla pressione dell'esposizione fisica agli altri.

giovedì 18 luglio 2013

martedì 16 luglio 2013

ADHD: la FDA approva il primo neurotest diagnostico

Negli USA la diagnosi infantile di Sindrome da Deficit d’Attenzione e Iperattività (ADHD) va di gran moda, così come  il conseguente trattamento amfetaminico, specie con metilfenidato. Il giro d’affari sviluppatosi in quarant’anni attorno a questa sindrome complessa e al suo controverso trattamento farmacologico è impressionante. Si parla di un’incidenza mondiale della sindrome pari al 3-5% dei bambini, ma mentre negli USA quasi 1 su 10 viene diagnosticato almeno parzialmente o momentaneamente ADHD, in Francia si arriva a meno di 1 caso su 200. Medici, psicologi, famiglie formano veri e propri partiti pro e contro l’adozione di farmaci e la diagnosi facile. Nel bel mezzo di questa discussione irrisolta ed epocale, la FDA ha approvato oggi per la prima volta un test neurologico che si basa sul rapporto tra due frequenze cerebrali ben note a chi si occupa di encefalografia quantitativa e di neurofeedback: theta (4-8 Hz) e beta (16-19 hz).
Semplificando al massimo, in un soggetto funzionale le onde theta (a bassa frequenza, molto presenti in stati ipnotici e meditativi, nonché in alcune fasi di passaggio tra dormiveglia e sonno profondo) dovrebbero essere misurabili in maggiore quantità nella zona parieto-occipitale del cervello, digradando verso la zona frontale, distribuendosi in maniera equilibrata tra i due emisferi; le onde beta, proprie dello stato di veglia (e di alcuni picchi del sonno REM) sono al contrario più presenti nella zona frontale, con una lieve asimmetria a vantaggio dell’emisfero sinistro. Il rapporto numerico tra ampiezza delle onde theta e beta in alcune zone frontali e frontoparietali specifiche (su tutte F3, C3, C4, usando la classificazione encefalografica 10-20) quantifica l’attivazione delle medesime aree e costituirebbe un marker per i disturbi d’attenzione (T-B > 3-3.5 su F3, C3, CZ) e per l’iperattività (T-B >3-3.5 soprattutto su C4 e CZ).
Un intervento di rieducazione di questo rapporto tra onde tramite autoapprendimento (neurofeedback) sembra essere efficace nel migliorare tanto la componente disattentiva quanto l’iperattività. Anche qui i dati sono controversi: nel 2005 negli USA il Professional Advisory Board of CHADD concludeva che il neurofeedback ha efficacia 2 su una scala 1-5 (possibly efficacious), poi nel 2009 Arn stabiliva in base a nuovi studi un livello 5 (efficacious and specific) e nel 2011 una review di Lofthouse ha riabbassato questo orizzonte al livello 3 (probably efficacious), mentre nel 2013 si ridiscute un innalzamento al 5. Difficile capire se si tratta di disquisizioni contenutistiche, metodologiche o lobbistiche.
In ogni caso è arrivato il via libera al dispositivo 'Neuropsychiatric Eeg-Based Assessment Aid (Neba) System' che, basandosi proprio sulla registrazione non intrusiva delle onde cerebrali e sulla successiva analisi del rapporto theta-beta, in un quarto d’ora di test non invasivoriesce a fornire informazioni cliniche che vanno sommate alla valutazione psicologica/psichiatrica per una corretta diagnosi. Tra parentesi, questo dispositivo può essere tranquillamente emulato dall’utilizzo di qualunque amplificatore di onde cerebrali professionale collegato a un pc, magari con l’ausilio di software ad hoc o di schermate disegnate per semplificare la valutazione del rapporto t/b, come queste.
Quale sarà l’effetto di questa approvazione? Una correzione al ribasso delle diagnosi statunitensi? Un ampliamento mondiale delle diagnosi? Un semplice strumento in più a disposizione dei clinici?

mercoledì 10 luglio 2013

Text talk: il mondo delle parole


Parlare attraverso il linguaggio scritto, l'atto che viene definito text talk, non è semplicemente una questione generazionale e di abitudine all'utilizzo delle tecnologie digitali, ma è anche un'abilità che si può acquisire e migliorare. Di più: è un'arte. Esattamente come una buona capacità espressiva verbale/vocale è allo stesso tempo un'abilità e un'arte.
Il primo punto fermo è che l'abilità di comunicare in modo efficace attraverso la tastiera è strettamente collegata alle abilità di scrittura del soggetto. Chi odia scrivere, digita molto lentamente, ha un linguaggio particolarmente povero e sgrammaticato, difficilmente potrà essere coinvolto volentieri in un processo di aiuto testuale. Al contrario ci sono persone che preferiscono scrivere per esprimersi e provano una forma di piacere nello strutturare il proprio pensiero in frasi, selezionando le modalità che sentono più vicine a sè nel momento in cui lo fanno.
Nel dialogo scritto, i messaggi più efficaci sono quelli che si situano a metà tra spontaneità e organizzazione pianificata dei contenuti. Un messaggio breve, con errori banali di battitura e un'apparenza visiva un po' caotica può essere espressione sincera di amicizia e affetto, come se l'interlocutore accendesse la webcam in una stanza della sua casa in disordine. Allo stesso tempo un messaggio di questo tipo può anche essere espressione genuina dello stato della mente della persona in quel momento. Come dire: sono di fretta ma volevo contattarti ugualmente.
In genere i testi diventano più disomogenei, dettagliati ed espressivi mentre la relazione si approfondisce e le persone si sentono sufficientemente sicure per andare ad esplorare se stesse e il rapporto con l'interlocutore senza timore di scoprirsi troppo o di mettere in gioco la relazione. L'alleanza regredisce invece se il soggetto si sente minacciato, ferito o arrabbiato: in questo caso messaggi caotici e infantili possono indicare scompenso, acting out testuali o accessi psicotici.
Ciascun messaggio on line assomiglia a un piccolo pacchetto compresso di autopresentazione lanciato nel cyberspazio, come se fosse un prodotto a sé, un'opera finita, un dono da fare al proprio interlocutore. E come tale va trattato dallo specialista, che attraverso un'e-mail (forse più facilmente che in chat) può risalire alle abilità specifiche del cliente, riconoscendo importanti sfumature di stile cognitivo e anche di personalità tra una riga e l'altra. La qualità della relazione d'aiuto testuale si basa in buona misura sulla presenza e sull'impiego di queste abilità analitiche, accostate alla capacità d'ascolto.

sabato 6 luglio 2013

Chi controlla gli "ex" su Facebook non si evolve

Dimenticare è uno strumento evolutivo perché permette di ancorarsi al presente senza continuare ad abitare il passato. E la rete non dimentica, perciò almeno in questo non facilita l’evoluzione personale. Lo sosteneva diffusamente, tra gli altri, Viktor Mayer Shönberger nel suo libro “Delete – Il diritto all’oblio nell’era digitale”, uscito in Italia nel 2010. E’ una questione psicologica (stare nel qui-e-ora), ma se vogliamo anche sociologica, giuridica, giornalistica. Perché in rete ciò che è stato resta sempre ciò che è, in una specie di bidimensionalizzazione dell’esistenza che va a riscrivere di continuo una biografia di ciascuno di noi, perennemente aggiornata eppure ossessivamente ricorsiva. I social network, per esempio, costituiscono un diario compresso di ciò che pensiamo e facciamo: consentono di ripassare in pochi minuti interi anni di vita, comprimendoci in veri e propri zip informativi che non restituiscono la dimensione temporale e la complessità del nostro cammino.
Una recente ricerca (Marshall, 2012) ha spostato questa considerazione sul mondo degli affetti mediati da Facebook. Su un miliardo di utenti mondiali del social di Zuckerberg, si stima che un terzo degli iscritti utilizzi questo strumento per controllare (nota bene: non mantenersi in contatto ma controllare) le gesta degli “ex”. In una specie di gioco masochistico-ironico, le persone tenderebbero infatti a tenere legami virtuali, anche di semplice monitoraggio, con soggetti con i quali nella vita fisica hanno invece interrotto ogni rapporto. Gli amori finiscono, le persone si allontanano, ma non su Facebook, dove secondo questo studio la tentazione di andare a ficcare il naso nella vita – altrimenti non più accessibile – dei non-più-partner è per molti irresistibile. Irresistibile ma non gratuita. Infatti il prezzo si paga in termini evolutivi. La vita virtuale diventa specchio interattivo della vita reale e il campione di 464 persone prese in considerazione mostra chiaramente che i soggetti che non si staccano dagli ex on line manifestano minore tendenza alla crescita personale, minore capacità di superamento del lutto amoroso, minore propensione all’automedicazione psicologica. Insomma occorre imparare che le storie vanno concluse anche in rete, indipendentemente dal fatto che l’altro sia del tutto ignaro di essere osservato a distanza.

giovedì 4 luglio 2013

Fiducia, la password dell'era internet.

Fiducia è una parola fondamentale per questa era digitale. Secondo alcuni ricercatori (Wogalter, Schofield, Ma, Pettit, Mc Geer, Wishwanath, Bierhoff, 2004-2010) su internet la fiducia è:
• connessa alle caratteristiche individuali: maggiori sono le abilità sociali del soggetto, maggiore è la fiducia indotta o concessa;
• proporzionale alla navigazione: più si è on line, più ci si fida;
• diversa dalla privacy: dipende dal contatto reciproco, non dalla riservatezza;
• indotta talvolta magicamente: se ipotizzo che un interlocutore sia affidabile, proietto su di lui queste aspettative e finisco col fidarmi davvero di lui come se avessi una maggiore conoscenza della persona e della situazione;
• identica tra chi ha abilità di discriminazione e chi è ingenuo: in rete chi ha i mezzi per capire di chi fidarsi tende a fidarsi allo stesso modo di chi non ha i mezzi;
• correlata alla fiducia sociale di provenienza: mediamente un acquirente canadese non controlla la reputazione di un venditore su eBay prima di chiudere un accordo con lui, mentre in Italia questo non sarebbe pensabile;
• concessa in base alla fiducia nel medium: poiché internet è un luogo di libertà che porta con sé valori eminentemente positivi, non è possibile che vi accada qualcosa di spiacevole e quindi mi fido semplicemente per il fatto che sono in rete e che anche il mio interlocutore è in rete come me.
Senza fiducia internet si sgonfierebbe: non faremmo acquisti on line, non accederemmo al nostro conto corrente, non scriveremmo niente di noi su un social network, non condivideremmo fotografie nè video.

La rivoluzione del cosiddetto web 2.0, il regno della partecipazione e della condivisione, è in realtà la normalizzazione di tutta una serie di comportamenti che nella vita fisica di tutti i giorni non avremmo mai adottato per semplici regole di prudenza o convenienza.
Perchè è successo? Perchè al nostro cervello piace biochimicamente stare in rete: ma questo è un altro post.

Beati voi umani... (20 sec di promo)


Perchè psicologia digitale?

Due chiacchiere tra autore ed editore. Pietro Spagnulo, psichiatra, psicoterapeuta e mente di Ecomind mi intervista sui contenuti e sulle origini dell'ebook.

martedì 2 luglio 2013

Rete: lo specchio imperfetto

Dire che esiste una connessione diretta tra identità off line e on line non significa sostenere che mentre  ci troviamo in rete siamo uguali alla nostra versione “disconnessa”. Regole, possibilità e strumenti disponibili su Internet sono infatti notoriamente differenti da quelli consentiti dalla vita di tutti i giorni tra casa, ufficio, scuola e altri ambienti fisici: anonimato, assenza del corpo, comunicazione testuale, disinibizione e autoapertura sono alcune tra le principali caratteristiche che differenziano la vita on line dall'altra.
Avendo trasferito o duplicato esigenze, desideri e comportamenti dal mondo fisico a quello virtuale, gli utenti della rete hanno adattato tutti i propri contenuti al contesto digitale e nel farlo - per la prima volta nella storia, considerando che Internet è a disposizione di tutti dalla metà degli anni 90 del secolo scorso - a volte elaborano forme di comportamento apparentemente esagerate ed estreme rispetto alle omologhe forme off line.  Questo pare avvenire soprattutto per quel che concerne i nativi digitali. Per esempio, l’analisi di una stanza di chat (Smahel, 2007) ha mostrato che nelle conversazioni esistono: un rimando ad argomenti sessuali per ogni minuto, due dichiarazioni di identità nella stessa unità di tempo e due ricerche di partner ogni 60 secondi.
On line le differenze di genere tra adolescenti sono in parte rispettate e in parte sovvertite. In chat, per esempio, le femmine cercano partner più spesso dei maschi. Sui blog ragazzi e ragazze sono pari in quanto a utilizzo di linguaggio aggressivo e passivo (Huffaker, 2005), e diventa falso il luogo comune secondo cui il primo si addice maggiormente ai maschi e il secondo le femmine.
E' bene ribadirlo, dunque: tra la versione off line e on line di uno stessa persona, in particolare di uno stesso adolescente, esiste una forte connessione ma non una copia comportamentale.

lunedì 1 luglio 2013

Facebook e autostima: su o giù?


In teoria Facebook è una gran cosa per le persone con una bassa autostima: i social network permettono di condividere contenuti ed esperienze, condividere è importante per rafforzare le amicizie, e rendere i legami più solidi aumenta il senso di supporto e la sicurezza in se stessi. In teoria, appunto. In pratica però le persone con minore autostima sembrano comportarsi in maniera controproducente quando sono on line, bombardando i loro amici con aneddoti negativi che riguardano la propria esistenza, rendendosi meno gradevoli ai loro occhi. 
Due ricercatori dell’Università di Waterloo (Wood, 2012) hanno osservato il comportamento on line di un campione di studenti, sottoponendoli anche a un questionario sul tema. I ragazzi con autostima minore consideravano il social network come una grande opportunità per entrare in contatto con altri in maniera sicura, evitando cioè situazioni di sgradevole imbarazzo sociale. Gli aggiornamenti di status però sono visibili a tutti e se si analizza il sentiment di questi brevi autoscatti testuali si evince che quelli dei ragazzi che hanno autostima inferiore sono più negativi degli altri. Altri utenti Facebook della stessa età venivano poi impiegati per esprimere un giudizio di gradimento sulle persone in relazione proprio ai loro status. In sintesi: chi ha meno autostima scrive status più negativi e chi li legge considera più sgradevoli di altri gli autori. Inoltre le reazioni maggiori si hanno in base ai post che esprimono le emozioni più rare per ciascun soggetto: chi ha scarsa autostima ottiene più feedback quando scrive post positivi; chi ha alta autostima ne ottiene di più per i suoi commenti negativi. Questo significa che le persone con scarsa autostima possono trarre vantaggi immediati dalla propria self disclosure, in termini di sollievo, ma non vantaggi strategici, perché aprendosi raccontano più emozioni negative e diventano più sgraditi. Anche se non lo sanno, visto che i post di reazione sono pochi.
Diversamente, nel 2013 C.Toma dell'Università del Wisconsin ha notato che esporsi per cinque minuti allla vista del proprio profilo Facebook è come un'iniezione di autostima anche per chi ne ha meno. Anzi, l'effetto di questo "doping" è tale che, subito dopo l'esposizione alla vista del proprio profilo, i soggetti del campione analizzato non hanno bisogno di trovare altri meccanismi di innalzamento dell'autostima e quindi sono all'atto pratico meno motivati nella realizzazione di piccoli compiti reali dai quali potrebbero trarre vantaggio in termini di immagine di sè. Come dire: con facebok stai meglio e fai peggio. Naturalmente si tratta sempre di test effettuati in laboratorio.